Le smanie di guardare il mondo dall’alto e di vederlo fino ai suoi confini lontani, quello di respirare aria fine e di riportarsi a casa
l’energia che solo la montagna sa darti; Marina è sempre lassù con le sue fantasie, è sempre animata da forti desideri che però contrastano
con quelle altrettanto forti e dolorose fitte alla schiena che fanno sembrare il Narga Parbat una rampa di scale, figuriamoci un qualsiasi
dislivello anche dissipato in qualche chilometro di sentiero. Più doloroso è però per lei il dispiacere di sapere che anche solo i desideri
presto sarebbero stati riposti in fondo ad un cassetto per parecchio tempo; per quella schiena maledetta e coccolata era, purtroppo o finalmente,
arrivata l’ora della la resa dei conti, la scelta era stata fatta, tutte le difficoltà psicologiche e non solo superate e la chiamata del chirurgo
era vicina. Tutto sarebbe arrivato ma non prima di rivivere quella manciata di desideri e di emozioni che sarebbero servite ad oltrepassare il
guado. Marina, che è tosta come tutte le donne che vanno per montagne non si è voluta quindi negare ancora un momento di leggerezza, sapeva che
insieme avrebbe dovuto provare anche l’ennesima sofferenza e patimento ma si sarebbe imbottita di antidolorifici e mi ha chiesto di programmare
una passeggiata, piccola, senza grossi dislivelli, in qualunque condizione di meteo. Voleva ritornare in montagna prima di dover riporre gli
scarponi in soffitta per chissà quanti mesi.
Aprilia non da grandi scelte in quanto a montagne vicine e facili, Il Velino, gli Ernici, l’isolato Circeo o gli Aurunci; non riuscivo a pensare
al connubio tra alte e belle montagne e poco dislivello da superare, poi mi è venuto in mente Campo Catino, ci sali in auto e ti trovi già a 1800
metri. Poi mi sono immaginato il percorso fino alla Monna, circa dieci chilometri con modestissimi dislivelli e non ho trovato alternative più
adatte che questa meta. La Monna sui monti Ernici.
Da casa sono solo centotrenta chilometri ma due ore di viaggio ci vogliono tutte, ce la prendiamo comoda e arriviamo alla triste piana di Campo
Catino che sono quasi le nove del mattino; è una giornata grigia e fredda, il cielo è coperto da un tappeto informe di nuvole fitte ma stranamente
c’è una grande pulizia dell’aria che permette di allungare lo sguardo fino ad orizzonti lontanissimi tutto attorno.
Riduco il più possibile il dislivello da coprire, la piana di Campo Catino è bianca di brina e decidiamo di salire subito verso la cima del
Vermicano; parcheggio nei pressi della chiesetta. I centocinquanta metri fino alla cima li saliamo lenti cercando di riscaldarci il prima
possibile, fa freddo e tira un leggero vento gelido; sappiamo che una volta su ci sembrerà di avere fatto il più e che davanti ci spetterà solo
una lunga e piatta passeggiata. Tra una ventata fredda ed uno sguardo sulla Ciociaria la sotto arriviamo in vetta, un trionfo di rovine diroccate
di vecchie strutture degli impianti sciistici. Tristezza, ma pensiamo ai pochi posti di lavoro che questi impianti possono offrire, se decidesse di
nevicare, e giustifichiamo questi sbancamenti.
Dopo la cima scivoliamo in leggera discesa verso Est, davanti, nel paesaggio cristallizzato dalla brina e dalle basse temperature è evidentissima la
lunga linea della strada di servizio che passa sotto il Peschio delle Cornacchie e il Pozzotello, taglia il versante di netto e non lascia nulla
all’immaginazione del percorso che dovremo coprire, gira intorno al vallone dell’Agnello e culmina poco prima della scura mole della Monna; lineare
e all’apparenza come lo ricordavo, piatto e non troppo lungo, più o meno cinque chilometri. Verso Est spicca una lama di azzurro luminoso, magari
è la promessa di una giornata migliore sul crescere delle ore, seguendo le linee della cresta verso il Crepacuore individuo il Viglio ancora
parzialmente nascosto, il Cotento ed il Tarino e laggiù, in mezzo a queste, l’inconfondibile mole del Corno Grande. Continuiamo in discesa leggera
fin sotto il Peschio delle Cornacchie, poi quasi in piano sbuchiamo in cresta sulla sella del Pozzotello dove l’orizzonte regala una muraglia
bianca lontana, dietro il Peschio delle Ciavole; credo sia il monte Rotella, dietro più lontano ancora si distinguono le rave della Majella
leggermente innevate. Un regalo questo orizzonte così vasto in netto contrasto col plumbeo cielo che ci sovrasta; anche verso Ovest gli orizzonti
arrivano fino al limite di ciò che si può vedere, i riflessi rosati fanno intuire il mare anzi di più li accanto spicca la sagoma familiare del
Circeo. Davvero fantastico, siamo in alto su una lunga cresta a distinguere tutti gli Appennini del centro Italia.
Scivoliamo sotto il monte Pozzotello, scendiamo su una ampissima sella accanto alla piana di Campovano dominata dal rifugio dell’Enel; un sentiero
laterale si stacca verso il monte Ortara, indugio se seguirlo o meno Marina preferisce salire invece che abbassarsi di nuovo. Aggiriamo l’anonima
vetta che abbiamo davanti ancora imbiancata dai resti di una recente nevicata, e riscendiamo verso una sella più stretta, il Passo del Diavolo
sulla carta, da dove la Majella sembra ancora più vicina dietro al vicino monte Ortara. Intanto la Monna si è avvicinata ulteriormente, si intuisce
bene la croce di vetta, rimane da chiudere l’ultima parte di cresta, quella che vira decisamente verso Ovest a formare l’ultimo tratto del vallone
dell’Agnello e che culmina con la vetta della Monna. Un po’ di roccette, tratti di sentiero più sottili e più interessanti, sfiliamo sotto la cima
del Fanfilli e riscendiamo su una ulteriore sella, crocevia di sentieri che salgono dall’Abazia di Trisulti e da Vico nel Lazio. Sparuti segnavia
bianco-rossi accompagnano la salita fino alla Monna, il sentiero è incerto e quasi non esiste; la croce che quasi subito si staglia nel cielo
accompagna la salita e detta il percorso, siamo alla meta. Una imponente croce in alluminio si erge solida sulla vetta che è ampia e sassosa.
Sotto, i vari paesi della Ciociaria vera, Collepardo, Vico nel Lazio, Alatri e Guarcino, sono disseminati in un territorio a dire il vero molto
antropizzato tante sono le costruzioni disseminate nella campagna. Nel frattempo ci raggiungono tre ragazzi di Veroli che sono saliti dall’Abazia,
per loro è stato un salto di quasi mille metri che nemmeno riescono a nasconde troppo tanto sono sudati e trafelati. Dalla cima della Monna il
sentiero che abbiamo percorso si legge metro per metro, ora a dire il vero sembra anche un po’ lungo il ritorno; Marina è seduta ai piedi della
croce, non nasconde la sua stanchezza e i sui dolori che stanno arrivando puntuali come un treno rosso della Svizzera, forse ci rendiamo conto di
aver osato troppo. Dovevamo farci coraggio, lei soprattutto, nessuno ci avrebbe aiutato e così come siamo arrivati alla Monna saremmo dovuti
ritornare a Campo Catino. Lentamente riprendiamo la via del ritorno, ovviamente per lo stesso percorso dell’andata; scendiamo alla sella crocevia
di sentieri e saliamo al Fanfilli, scendiamo al Passo del Diavolo e risaliamo ancora per aggirare la cima senza nome, facile da defilare in un
racconto veloce della giornata meno per lei che ad ogni passo sentiva aumentare il peso sulla sua fragile schiena. Noto che ad ogni salita Marina
rallenta e si incurva, capisco che sta stringendo i denti, ma siamo ancora lontani per false illusioni. Qualche sosta in più, rallentiamo ancora sul
traverso quasi pianeggiante di Campovano, indietro la Monna torna ad essere lontana ma Campo Catino sembra non avvicinarsi di un passo. Piano piano
in leggera salita arriviamo alla sella del Pozzotello, se potesse Marina si fermerebbe qui, per sollevarla un po’ mi carico il suo zaino e riprendiamo
lenti a rientrare ora scaldati da un tiepido sole che è sbucato dalla coltre di nuvole. Un passo alla volta, si sa, la politica del passo alla
volta in montagna paga. La schiena di Marina non ne vuole più mentre traversiamo sotto il Vermicano risparmiandoci alcune decine di metri di salita
e scivolando nella spianata sassosa della pista da sci arriviamo alla macchina. Do una occhiata al GPS, so dal suo volto, ormai maschera di
stanchezza e dolore, che abbiamo osato troppo e che siamo andati oltre ciò che dovevamo, leggo che sono quasi dodici i chilometri percorsi e poco
più di seicento i metri di dislivello superati, molti di più di quello che l’esperienza e la conoscenza del territorio faceva pensare. Inutile
piangersi addosso, forse in questo momento tutto sarebbe stato troppo; ciò che riportiamo a casa era ciò che avevamo desiderato, stare liberi in
montagna ancora una volta prima di una lunga sosta. Mentre scendiamo a valle i tornanti sono altre spine che si conficcano nella schiena di Marina,
lei sorride e minimizza ma la conosco e so che soffre in silenzio. Trova la forza per una sosta alla Ruota, a Guarcino, un piatto di Gnocchi,
cucina ciociara e un pò di caldo diventano un bel momento di ristoro e riposo. Sempre troppo tardi arriviamo a casa, ora siamo pronti ad iniziare
un percorso più lungo e più lento speranzosi e convinti che alla fine di questo ci verrà restituita la qualità della vita e la possibilità di
vivere la montagna come davvero ci piace. Auguri alla mia forte compagna di escursioni e non solo, credo che in cima a questa salita ci sarà la
croce più grossa e dura da raggiungere. Ce la farà!